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Il mio lungo romanzo con il Nebbiolo



Nei primi anni 90' Mosca ha accolto i primi due ristoranti italiani, Il Pescatore e La Cipolla d’Oro, diventando così il quartier generale di quegli italiani avventurieri che si sono precipitati, attratti dal crollo dell’Unione Sovietica e da possibili affari, in un paese che doveva ancora scoprire il libero mercato. Al Pescatore c’era la TV con i canali italiani e nelle date importanti si faceva il pienone.  Le elezioni del 1994 erano una di quelle, Berlusconi era sceso nel campo politico, indossando un sorriso smagliante. Si mangiava, si beveva e si scherzava, festeggiando ignari l’inizio dell’era berlusconiana. Durante la finale “Italia-Brasile” si man­­­giava poco e si scherzava ancora meno, si beveva evocando il nome del magnifico Roberto Baggio. La partita me la ricordo bene, ma il vino no. Sicuramente era un vino ordinario, un Soave o forse un Frascati, dato che i proprietari erano di Fiumicino. Non avvezza al vino in virtù della mia giovane età quasi interamente trascorsa nella Russia sovietica, dove i vini moldavi e georgiani in circolazione erano zuccherini e spesso ossidati, nutrivo grande curiosità per quel gusto secco, discreto e garbato, decidendo, tra me e me, che forse mi piaceva. Preferivo cenare al Cipolla d’Oro, l’atmosfera lì era meno chiassosa, quasi elegante. Una sera assaggiai un vino rosso e chiesi ai miei commensali di ricordarmi all’indomani il suo nome: mi era parso strepitoso. Risero, esclamando che “la ragazza ha un buon gusto, le piace il re dei vini, il Barolo”. Quanto mi piacerebbe sapere adesso quale fosse quel Barolo, qual'è la sua storia, chi fossero gli uomini dietro l’etichetta, ma, come è ovvio, allora anche il nome era per me un’informazione più che sufficiente (uno dei commensali qualche anno dopo mi disse che era un Mascarello ma non ne sono certa).
Il primo viaggio nelle Langhe è avvenuto molti anni dopo, con molteplici assaggi di diversi Barolo alle spalle. E anche se ormai mi ero irreversibilmente appassionata al vino e in genere all’enogastronomia italiana, conoscevo molti vini e vitigni e con entusiasmo praticavo la territorietà degli abbinamenti nella cucina di casa e nei viaggi per la penisola, il Barolo è sempre rimasto sul mio piedistallo personale dei vini italiani. Le Langhe mi hanno fornito la cornice di cui aveva bisogno il mio Barolo, la chiave per capirlo al meglio. La gastronomia locale è un magnifico sodalizio di semplicità e raffinatezza, unico al mondo se pensiamo al contesto prevalentemente contadino in grado di offrire piatti di grande armonia, freschezza e anche estetica. Dai meravigliosi risotti alle tartare di fassona, agli squisiti formaggi, al tajarin al tartufo bianco, ovunque al mondo ormai conosciuto come il tartufo d’Alba. In autunno, in tempo di vendemmia e di tartufo bianco, queste terre offrono uno spettacolo ineguagliabile della natura: il paesaggio sembra essere dipinto da un sapiente astrattista, ogni fazzoletto di vigne di un colore diverso che va da un rosa tenue fino al viola intenso, passando per tutte le sfumature di rosso, arancio e verde. Nelle vallate, disposte in tutte le inclinazioni possibili tra le colline, scivola dolcemente la nebbia, cambiando, per la gioia dello spettatore, il quadro a ogni ora del giorno. E’ dalla nebbia che prende il suo nome il nebbiolo, il più nobile tra i vitigni italiani e forse anche di tutto il mondo. Un vitigno non facile, il nebbiolo si concede solo a chi lo conosce da sempre, a chi conosce i suoi segreti, le sue debolezze e le sue potenzialità, a chi sa e vuole ascoltarlo: la gente della sua tradizione. Altrove si comporta da un gran ribelle introverso e difficilmente regala il meglio di sé. Ricco di tannini, povero di antociani, tardivo e fragile, richiede tante cure, tanta fatica e tanta passione, che non sono certamente mancati qui nei secoli precedenti. Non c’è nulla di più affascinante, nel mondo del vino, del mistero di un terroir. Non bisogna stupirsi quindi se i “terroiristi” continuano a manifestare il proprio disaccordo con il “parkerismo”, che predilige la piacevolezza del vino a tutti costi. Indubbiamente, alla fine dei conti, è il palato che deve restare soddisfatto, ma il vino, si sa, è il prodotto più culturale della terra, più cerebrale, più intrigante, per Balfour “è poesia imbottigliata.”Il vino si racconta a chi ha voglia di ascoltarlo. Aprire una bottiglia di vino è come accedere a uno scrigno magico, dentro cui si trovano storie, nomi, nobiltà e miseria, sconfitte e rivincite, caparbietà e sogni che si realizzano. La narrazione attraverso profumi, colori, ricordi e sensazioni. Il Barolo del crinale est, che unisce le vigne dei comuni di La Morra e di Barolo, dove i suoli sono calcarei di epoca tortoniana, è diverso dal Barolo di Serralunga d’Alba, dove albergano alcune delle vigne più alte della denominazione e il terreno elveziano è meno fertile. Il primo, pur conservando la sua solennità, è molto sottile e fragrante, si dice addirittura “femminile”, mentre quello di Serralunga è famoso per essere robusto e austero e per il richiedere lunghissimi invecchiamenti. Castiglione Falletto dona ai suoi Barolo un ricco bouquet di aromi, rendendoli deliziosamente profumati. Proviene da qui un'altra bottiglia che mi ha allettato con i suoi racconti durante quest’ultimo viaggio. Le vigne della famiglia Cavallotto una volta appartenevano a quella donna fantastica, il cui nome è strettamente legato al “vino dei re”. Anzi, è stata proprio lei a donare al Barolo questo appellativo. Giulia Colbert, una francese sposata con Carlo Tancredi Falletti, l’ultimo marchese di Barolo, un giorno inviò al Palazzo Reale trecentoventicinque carri di vino, uno per ogni giorno dell’anno, esclusi i quaranta giorni della Quaresima. Considerando l’alto lignaggio degli habitué e degli ospiti del Palazzo, era un autentico atto di valorizzazione del patrimonio enoico delle Langhe e in particolar modo del Barolo. 
Insomma, il Nebbiolo è stato aiutato dai personaggi nobili prima e quelli illuminati poi. Dopo il Barolo, all'epoca già odierna, è stato sicuramente Angelo Gaja a mettere sotto i riflettori il Barbaresco, diventando il suo ambasciatore e promotore nel mondo. Più esile e setoso, il Barbaresco ha conquistato il posto sul piedistallo dei nebbioli vicino al Barolo uscendo definitivamente dall'ombra di quest'ultimo. Sempre Nebbiolo, sempre Piemonte, due rappresentazioni identitarie dei due terroir vicini ma diversi. Naturalmente, anche un buon Barbaresco non mi lascia indifferente, anzi. Tra miei preferiti ci sono Sottimano, Produttori del Barbaresco, Marchesi di Gresy, Piero Busso e altri.

Poi c'è anche il così detto "L'altro Piemonte", dove il protagonista è sempre Nebbiolo, spesso chiamato Spanna. Parliamo di zone vitivinicole Gattinara e Boca, nebbioli succosi e vellutati; scuri e sapidi Bramaterra; balsamici, floreali e fruttati quelli di Ghemme, Fara, Lessona e Sizzano. 


E poi c'è la Valtellina, dove il Nebbiolo si fa chiamare la Chiavennasca. Terre di viticoltura eroica, vigneti in grande pendenza, grandi sbalzi termici sia stagionali che diurni in mani sapienti conferiscono al vino un eleganza e una bevibilità senza iguali.  Sicuramente per me è l'ultimo tra gli innamoramenti vissuti verso il Nebbiolo. Ma, ci tengo a dire, che oggi anche la Valtellina vive una grande rinascita grazie agli produttori orientati verso la qualità rappresentata dalla finezza, dalla piacevolezza di beva, dalla freschezza e dalla più fedele interpretazione del terroir e del vitigno. E non importa se si tratti del vino semplice dove la frutta regna sovrana o del vino strutturato, verticale, con sentori terziari che viaggino dal balsamico alle reminiscenze del odore di un buon sigaro. Produttori come Siro Buzzetti, Lorenzo Mazzucconi, Sandro Fay, 
Donato Ruttico che fa anche salumi da perdere la testa, e diversi altri, stanno portando la Valtellina nelle vette della produzione del Nebbiolo.